Pagine

Najwan Darwish, poesie da Gerusalemme



Najwan Darwish (1978) è uno dei dei poeti in lingua araba più in vista della sua generazione. Sin dalla pubblicazione della sua prima raccolta, datata 2000, la sua poesia è stata tradotta in dieci lingue. È consulente letterario del Palestine Festival for Literature (Palfest).

La sua poesia incarna un messaggio universale, che ricorda i grandi poeti mistici. Da Gerusalemme, dove vive e lavora, Darwish è diventato una voce che si leva per la lotta della sua nazione. La sua poesia rende la particolarità dell'esperienza palestinese in immagini luminose e osservazioni penetranti, ma la sua immaginazione e gli interessi non sono limitati dai suoi confini.

Eccone alcuni esempi. Come sempre, si tratta di mie traduzioni in questo caso realizzate sulle versioni in lingua inglese di Kareem James Abu-Zeid.


CARTA D'IDENTITA'

Nonostante – come scherzano sempre i miei amici -  i curdi siano famosi per la loro severità, io ero gentile più di una brezza estiva nell’abbracciare i miei fratelli nei quattro angoli del mondo.
Ed ero l’armeno che non crede alle lacrime sotto le palpebre della neve della storia che copre insieme i morti e gli assassini.

È forse troppo, dopo tutto quello che è successo, lasciare che la mia poesia cada nel fango?

In ogni caso ero un siriano di Bethlehem che raccoglie le parole del fratello armeno, e un turco di Konya che attraversa la porta di Damasco.
E poco prima ero giunto a Bayadir Wadi al-Sir e mi aveva dato il benvenuto la brezza, la brezza che sola conosce il significato di un uomo proveniente dai monti del Caucaso, con solo compagni la sua dignità e le ossa dei suoi antenati.
E quando il mio cuore raggiunse il suolo algerino, per un momento non ebbi dubbi sul fatto che fossi un berbero del popolo Amazigh.

Ovunque andassi pensavano che io fossi un iracheno, e non si sbagliavano nel dire questo. E spesso mi considero un egiziano che vive e muore vicino al Nilo con tutti i suoi antenati.
Ma soprattutto era un Arameo. Non c’è da stupirsi che i miei parenti fossero bizantini e che io fossi un bambino Hijazi coccolato da Umar e Sefronio dei tempi in cui Gerusalemme era libera.

Nessun posto ha resistito ai suoi invasori a meno che non fossi uno di loro; non c’è uomo libero a cui non sia legato da parentela, e non c’è un solo albero o nuvola verso cui non sia indebitato.
E il mio disprezzo per i sionisti non mi previene dal dire che io fossi un Ebreo cacciato da Granada, e che ancora cerco il significato della luce di quel tramonto.

Nella mia casa c’è una finestra che si affaccia sulla Grecia, un icona che punta alla Russia, un profumo delicato, per sempre alla deriva da Hijaz, ed uno specchio: non appena mi ci trovo davanti vedo me stesso immerso nella primavera del giardino di Shiraz, di Isfahan e Bukhara.

Non ti chiameresti Arabo, se fossi anche una sola cosa in meno di queste.


JERUSALEM

Quando mi allontano da te divento di pietra
E divento di pietra persino quando vi torno

Ti chiamo Medusa
Ti chiamo la sorella anziana di Sodoma e Gomorra
Tu la fonte battesimale dov'è bruciata Roma
 
Le vittime canticchiano le loro poesie sulle colline
E i ribelli gli rimproverano le loro storie
Mentre mi lascio il mare alle spalle per fare ritorno
A te, ritorno
Vicino a questo fiumicello che scorre nella tua disperazione
 
Sento chi recita il Corano e i sudari dei cadaveri
Sento la polvere dei cordogli
Non ho ancora compiuto trent'anni, ma tu mi hai giù seppellito, di volta in volta
Ed ogni volta per il tuo bene
Emergo dalla terra
Così lascio chi canta che le tue preghiere vadano all’inferno
Chi vende souvenir del tuo dolore
Chi sta con me, ora, in questo ritratto
 
Ti chiamo Medusa
Ti chiamo la sorella anziana di Sodoma e Gomorra
Tu la fonte battesimale dove è bruciata Roma
 
Quando mi allontano da te divento di pietra
E divento di pietra persino quando vi torno
 




Nessun commento:

Posta un commento