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Ritorno alla censura (cultura e progresso in Italia)


Per motivi che non sono del tutto estranei all'attuale situazione nazionale italiana mi sono visto costretto a riprendere in mano una serie di autori e di libri che negli anni mi hanno fornito un appiglio razionale e civile durante le tempeste che la realtà, quando subìta, produce.
Uno di questi è Vitaliano Brancati che, troppo spesso relegato a cantore delle pulsioni del maschio meridionale, fu invece un osservatore attento delle vicende che seguirono la caduta del fascismo.
Fu pronto, infatti, a dipingere quel periodo di liberazione e di ricollocamento politico rimanendo lontano dagli entusiasmi e dalle assoluzioni, forse anche perchè lui stesso aveva sostenuto il fascismo nella prima parte della sua vita. In una pagina de I Fascisti invecchiano intuì con chiarezza la condizione in cui l'Italia venne fuori dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale; quella che, del resto, consentì la ripresa e la rinascita del Paese:
Comprendo che siamo dei vinti. Ma al Diavolo! Saremmo rimasti così permalosi e nazionalisti da conferire a una sconfitta militare tanta importanza? La sconfitta militare, quando non è sconfitta del meglio che possegga un popolo, delle sue virtù, del suo sentimento della libertà, delle sue leggi più alte e dei suoi costumi più civili, ma al contrario è la disfatta dei suoi errori momentanei, dei suoi peccati, dei suoi vizi, non dovrebbe costituire una sciagura così grave.
Questo suo sguardo disincantato ma pacifico gli permise subito, già nel 1952, di rendersi conto della direzione che la politica italiana avrebbe intrapreso nei decenni democristiani, retaggio, del resto, del quale ancora oggi non siamo riusciti a liberarci.
Proprio nel 1952 scrisse Ritorno alla censura. Un saggio che ritengo molto importante sia perché inquadra la situazione storica di quel decennio fondamentale che furono gli anni quaranta del novecento, oltretutto prefigurando (quasi profetizzando) i decenni a venire, sia perché riesce ad individuare alcune caratteristiche astoriche della società e della classe dirigente italiana.
Interessantissimo risulta l'elenco dei dispacci ufficiali del fascista Ministero della cultura popolare (Non occuparsi del Diario di Guerra di Bissolati; Non pubblicare più lettere intime di Gabriele D'Annunzio; Non occuparsi di Moravia e delle sue pubblicazioni; Non occuparsi mai di qualsiasi cosa riguardi Einstein; ecc...). Ministero che dopo la guerra divenne il democratico Sottosegretariato per lo spettacolo e le informazioni, di cui primo segretario fu un giovanissimo Giulio Andreotti. Scrive Brancati:
“La cultura diventa subito odiosa. In Italia venne sopportata fra il '45 e il '46, l'unico periodo in cui si ragionò civilmente. La nostra società si sottopose a un duro esame, fu vivace, curiosa, drammatica, moderna. Quanto di peggio c'era in Italia, responsabile di quanto peggio fosse accaduto all'Italia, stava rannicchiato nel fondo e taceva. La parola venne data per due anni a quanto di meglio avesse il nostro Paese. Se si leggono i libri, i giornali, le riviste di quel tempo, se si ricorda la libertà degli spettacoli teatrali e dei discorsi politici, si rimane ammirati di come un Paese, uscito dalla sconfitta, avesse tanta vitalità e civiltà.
Ma questo nostro sentimento di ammirazione corrisponde, nella classe dirigente, a un sentimento di orrore. Essa si domanda con raccapriccio come abbia potuto sopportare un predominio così aperto della critica e della moralità. Tra il '45 e il '46, essa soffrì un martirio uguale a quello dei carcerati costretti a passare il giorno e la notte con un faro accecante davanti agli occhi. Dalle colonne di tutta la stampa parlavano uomini colti e intelligenti. I proprietari dei giornali erano costretti a tenere in cantina i loro prediletti ignoranti, i loro Voltaire che abbaiano soltanto agli straccioni, i loro umoristi per zitelle ereditiere, i loro suonatori di marce reali e inni patriottici. Quando la mattina essi vedevano sulla scrivania la prima copia del giornale, di cui erano editori, diventavano verdi. Coi loro soldi s'era data ospitalità alla cultura e alla critica! La “cosa” che essi più odiavano s'era nutrita del loro sangue.
Ma presto passarono alla riscossa. Con pressioni prima coperte e abili, poi scoperte e brutali, la cultura venne lentamente respinta fuori dalla vita pubblica. Dalle cantine uscirono, fra lazzi, motti, scherni, salti, do di petto nazionalistici, le squadre degli scrittori graditi, quelli che è piacevole leggere perché, non avendo essi letto quasi nulla, danno a chi legge le loro cose, l'impressione rinfrescante di non leggere nulla. Si diffuse l'allegria del circo equestre nelle soste fra un esercizio difficile e l'altro.
Tutti di nuovo, da tutte le colonne di giornali, da tutti i Ministeri, a testa bassa contro la cultura e la libertà. Di nuovo la parola fu data a quanto di peggio avesse l'Italia.
Il tono della vita italiana si abbassò rapidamente. Si crearono in tutta fretta le condizioni indispensabili per non ragionare, per non credere all'evidenza, per tornare ai rapimenti mistici, e alla tetraggine che accompagna ogni misticismo.
[…]
Vestivamo, mangiavamo, camminavamo, secondo le regole di una tristezza ineccepibile sicché non accadeva mai di coglierli in fallo, nel senso che in piena democrazia commettessero l'errore di essere felici o di aprirsi alla speranza. Quando parlavano di politica erano addirittura incomprensibili, perché non tenevano nessun conto delle regole elementari della logica...”
Ed è sorprendente l'attualità dello sconforto di Brancati. La sua sorprendente anticipazione del celebre motto gattopardiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E lo stesso fatalismo nei confronti di una realtà immutabile.
Faccio mie le parole di Brancate, e mio la sua stessa impotenza:
“Sembra un brutto sogno che, nel 1952, noi siamo di nuovo a questo punto. L'Italia non si stanca mai di essere un Paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio”.

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