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La mia resistenza (Una questione privata)


Non è insolito che alcuni eventi della storia assumano in noi un carattere privato che esula dalla loro natura pubblica. Alcuni dei ricordi più intimi della mia primissima adolescenza, ad esempio, sono legati alla passione letteraria e civile che per me coincise con la scoperta della letteratura resistenziale. 
Il venticinque aprile assunse, per me, un valore più intimo e privato di quello che le commemorazioni pubblice lasciavano presagire.
Non mi stupisce che i miei ricordi letterari legati alla resistenza riguardino soprattuto, anzi esclusivamente, opere in prosa, nonostante alcune siano fortemente liriche. E non mi stupisce che sia nato in questo miscuglio di arte e di storia il mio amore per la letteratura che fino ad allora avevo praticato più con slanci momentanei di passione piuttosto che con vero amore.
In principio fu Il sentiero dei nidi di ragno di quell'affabulatore che è Calvino. Non poteva essere altrimenti. In un certo senso rappresenta l'infanzia della resistenza, o quantomeno la resistenza raccontata con il tono eroico di quella stagione della vita. Poi venne Fenoglio, il mio primo vero grande amore. Il primo che mi spinse alla ricerca smaniosa delle sue opere. Mi piace ricordare che erano tempi in cui non esisteva ancora internet e per me che vivevo in un paesino di provincia dove non c'era, e continua a non esserci, nemmeno una libreria era veramente difficoltoso reperire dei libri. Lessi per primo Il partigiano Johnny, poi lessi I ventitrè giorni della città di Alba, Primavera di bellezza e Una questione privata. Appunti partigiani '44-'45, mi pare, lo lessi in un secondo tempo. In seguito lessi alcuni dizionari e storie della resistenza. Arrivai a A conquistare la rossa primavera di Davide Lajolo e infine lessi La casa in collina di Pavese.
Fu questa, essenzialmente, la mia esperienza della resistenza. Fenoglio il mio primo amore letterario, amore tanto grande che ancora ora, dopo più di un decennio, questo blog prende a prestito il nome di un suo personaggio, seppure di un racconto minore. Fenoglio fu per me l'eroismo della resistenza, fu epico e reale. Mi raccontò la verità di quella brutta faccenda e riuscì a renderla, proprio perchè vera, più bella. Pavese, invece, aprì squarci in grado di raggiungere profondità che solo lui, e poi più avanti con altri suoi romanzi, sarebbe stato in grado di ritornare ad eguagliare. Eppure non fu con la resistenza che fui in grado di capire il fascismo. Il fascismo e la sua "imbecillità"; quella betise di cui già parlava Flaubert nell'ottocento. Insomma, che la vera essenza del fascismo era questa pericolosa imbecillita lo capì leggendo Il prete bello di Goffredo Parise, e alcune pagine (o forse il loro insieme) delle opere di Vitaliano Brancati. Due autroe che, oltre ad essere istruttivi, si prestano ad una piacevole lettura.
Ad ogni modo, se dovessi indicare non il libro che meglio racconta la resistenza (quello non saprei indicarlo) ma quello che, raccontando la resistenza, lo fa facendo un uso migliore dell'espediente letterario non avrei dubbi nel fare il nome di Una questione privata di Fenoglio. Titolo già di per se paradossale visto che l'intento è quello di raccontare una pagina di storia italiana, eppure proprio perchè la resistenza fa da sfondo, così come fu nella realtà, alla vita privata, appunto, del protagonista tanto meglio dipinge la prepotenza della storia e l'ineluttabilità di parteggiare, di scegliere, di lottare.
Sei o sette anni fa, mi recai ad Alba. Ci passai un 25 aprile. Inutile dire che avevo con me i libri di Fenoglio. E mentre guardavo il profilo delle langhe, di quelle che furono le sue langhe e più in la le Alpi, avevo in mente la sequenza finale di Una questione privata. Quando Milton, il protagonista, viene sorpreso da un gruppo di soldati che gli sparano contro e lui, come un'animale, per istinto comincia a fuggire, ma mentre corre, da uomo, suggerisce a quei soldati di colpirlo in testa.
"Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva, come non aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.
Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di  fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. "Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!"
Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d'improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l'aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l'ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l'aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d'esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell'aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l'imbocco del borgo e l'attraversò nel mezzo. C'erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava nel fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l'ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò."


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