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Introduzione a La lucarne ovale di Pierre Reverdy



"Bisogna attraversare luoghi d’inferno 
Rischiando più di quanto abbiamo
E partire ritornare andare"

La lucarne ovale venne pubblicata nel 1916, un anno prima di quel Vouler de Talan che ho già detto (qui) sancì la chiusura della prima stagione poetica di Reverdy e rappresentò un momento di sintesi delle tre raccolte precedenti di cui l'ultima e più matura fu, appunto, La lucarne ovale.
Nell'opera non mancano di certo le asprezze e persino le cadute di stile, cosa che già non troveremo nel Voleur, eppure la sua è già una poesia che, proprio perché particolarmente controllata e cosciente di se e del proprio scopo, mostra le caratteristiche proprie del Reverdy maturo, solo, qua e la, non sempre qualitativamente all'altezza.

Premessa necessaria e condizione sine qua non per raggiungere il senso poetico di Reverdy è il silenzio. Silenzio che nelle opere successive avrà la sua manifestazione grafica ma che in questa opera è ancora solamente suggerito, sussurrato e talvolta gridato.
La realtà assume un senso diverso; gli oggetti non vengono descritti nelle loro qualità ma rappresentati nella loro essenza. Espediente che costringe il lettore a partecipare al compiersi del senso poetico che, dunque, si compie non solo nella comprensione dell'oggetto ma anche è soprattutto in quella del soggetto, cioè di se.
Reverdy usa una sintassi estremamente limitata e volutamente semplice. Fa riferimento a oggetti familiari e a sensazioni conosciute. Tuttavia li accorda in maniera da suscitare quell'ansia, quell'angoscia, che sole, secondo Reverdy, portano alla conoscenza prima descritta di oggetto e soggeto.
C'è un passo di Journal du voleur che pur non avendo, nelle intenzioni di Genet, nulla a che fare con Reverdy risulta utilissimo per descriverne la poetica:
L'emozione particolarissima che mi sono azzardato di chiamare poetica, lasciava nel mio animo qualcosa come un solco d'inquietudine che andava attenuandosi. Il bisbiglio d'una vocazione, di notte, e sul mare il rumore d'invisibili remi, nella mia particolare situazione m'avevano sconvolto. Indugiavo attento a coglier quegli atti che, erranti, mi parevano in cerca, come lo è d'un corpo un'anima in pena, d'una coscienza che li registrasse e li provasse. Come l'hanno trovata, essi cessano: il poeta esaurisce il mondo.
Tuttavia più che esaurirlo Reverdy sembra (Mallarmeanamente) perpetuarlo. Ogni azione sembra svolgersi in un tempo senza tempo, uomini e cose sono sospesi; non immobili, piuttosto destinati a ripetersi.
L'intera raccolta, così come ogni singolo componimento, è un viaggio a vuoto. Una rappresentazione di quell'infinito matematico che si è sempre pronti a pensare che non abbia una fine e che in pochi ricordano che, essendo infinito, oltre a non avere fine non può avere inizio. Non è un caso, infatti, che l'ultima lirica si chiuda con l'ammissione di un viaggio mai iniziato: “Una suoneria elettrica mi fece trasalire. Lontano da tutto, ancora sedevo davanti alla mia porta.

Banalmente si potrebbe dire che l'importante di un viaggio, compiuto o immaginato, sta nel percorso e non nella meta, ragion per cui la poesia di Reverdy ha bisogno di un lettore attivo disposto non solo a compiere questo viaggio, che è essenzialmente solitario, ma soprattutto a farlo pur non sapendo dove andare perché ci suggerisce Reverdy: “quando mi perdevo / un cammino nuovo mi si illuminava davanti”.  

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