"Bisogna
attraversare luoghi d’inferno
Rischiando più di
quanto abbiamo
E partire
ritornare andare"
Nell'opera non mancano di
certo le asprezze e persino le cadute di stile, cosa che già non
troveremo nel Voleur, eppure la sua è già una poesia che,
proprio perché particolarmente controllata e cosciente di se e del
proprio scopo, mostra le caratteristiche proprie del Reverdy maturo,
solo, qua e la, non sempre qualitativamente all'altezza.
Premessa necessaria e
condizione sine qua non per raggiungere il senso poetico di
Reverdy è il silenzio. Silenzio che nelle opere successive avrà la
sua manifestazione grafica ma che in questa opera è ancora solamente
suggerito, sussurrato e talvolta gridato.
La realtà assume un
senso diverso; gli oggetti non vengono descritti nelle loro qualità
ma rappresentati nella loro essenza. Espediente che costringe il
lettore a partecipare al compiersi del senso poetico che, dunque, si compie
non solo nella comprensione dell'oggetto ma anche è soprattutto in
quella del soggetto, cioè di se.
Reverdy usa una sintassi
estremamente limitata e volutamente semplice. Fa riferimento a
oggetti familiari e a sensazioni conosciute. Tuttavia li accorda in
maniera da suscitare quell'ansia, quell'angoscia, che sole, secondo
Reverdy, portano alla conoscenza prima descritta di oggetto e
soggeto.
C'è un passo di Journal
du voleur che pur non avendo, nelle intenzioni di Genet, nulla a
che fare con Reverdy risulta utilissimo per descriverne la poetica:
“L'emozione particolarissima che mi sono azzardato di chiamare poetica, lasciava nel mio animo qualcosa come un solco d'inquietudine che andava attenuandosi. Il bisbiglio d'una vocazione, di notte, e sul mare il rumore d'invisibili remi, nella mia particolare situazione m'avevano sconvolto. Indugiavo attento a coglier quegli atti che, erranti, mi parevano in cerca, come lo è d'un corpo un'anima in pena, d'una coscienza che li registrasse e li provasse. Come l'hanno trovata, essi cessano: il poeta esaurisce il mondo.”
Tuttavia più che
esaurirlo Reverdy sembra (Mallarmeanamente) perpetuarlo.
Ogni azione sembra svolgersi in un tempo senza tempo, uomini e cose
sono sospesi; non immobili, piuttosto destinati a ripetersi.
L'intera
raccolta, così come ogni singolo componimento, è un viaggio a
vuoto. Una rappresentazione di quell'infinito matematico che si è
sempre pronti a pensare che non abbia una fine e che in pochi
ricordano che, essendo infinito, oltre a non avere fine non può
avere inizio. Non è un caso, infatti, che l'ultima lirica si chiuda
con l'ammissione di un viaggio mai iniziato: “Una
suoneria elettrica mi fece trasalire. Lontano da tutto, ancora sedevo
davanti alla mia porta.”
Banalmente
si potrebbe dire che l'importante di un viaggio, compiuto o immaginato, sta nel percorso e
non nella meta, ragion per cui la poesia di Reverdy ha bisogno di un
lettore attivo disposto non solo a compiere questo viaggio, che è essenzialmente solitario, ma
soprattutto a farlo pur non sapendo dove andare perché ci suggerisce
Reverdy: “quando mi perdevo / un cammino nuovo mi si
illuminava davanti”.
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