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J’écris dans un pays dévasté par la peste (di Louis Aragon)


Louis Aragon compose questa poesia nel 1943, mentre la Francia era occupata dai nazisti. La lirica fa parte della raccolta intitolata Le musée Grévin, opera che Aragon pubblico con lo pseudonimo di François la Colère. Testimonianza di un'epoca in cui c'erano i Poeti, e gli intellettuali con il popolo ne dividevano la sorte. Oggi, mi dico, siamo orfani di tutto!
Il testo che riproduco è tratto da Franco Fè, Aragon: la vita il pensiero i testi esemplari, Milano, edizioni Accademia, 1973.




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Scrivo in un paese devastato dalla peste
che sembra un incubo ritardato di Goya
dove i cani non hanno speranza di manna celeste
e dove scheletri bianchi coltivano soia.

Un paese percorso in ogni senso da ladri
che a colpi di frusta requisiscono il bestiame
un paese conteso da unghie e da artigli
sotto un cielo impietoso di giorni calamitosi.

Un paese palpitante sotto i piedi di fantocci
solcato fino al cuore da magnifiche strade
messo sotto controllo in nome di Re Pétoche [Re Farselasotto]
un paese terrorizzato in preda ai lupi mannari.

Scrivo in questo paese dove gli uomini si abbrutiscono
nell'immondizia e il bisogno il silenzio la fame
dove la madre si sente strapare suo figlio
come se Erode regnasse dove Laval è delfino. 
[Laval fu vice-ministro di Philippe Pétain durante il regime di Vichy]

Scrivo in questo paese sfigurato dal sangue
che è ridotto ad uno squarcio di dolori e di piaghe
un mercato aperto a tutti i venti su cui si è abbattuta la grandine
una rovina dove la morte si accanisce su gracili ossa.

Scrivo in questo paese mentra la polizia
entra nelle case ad ogni ora della notte
in cui gli inquisitori conficcano i loro strumenti
nelle menbra straziate per strapparne i tradimenti.

Scrivo in questo paese che piange mille morti
che mostra a tutti le sue ferite sanguinanti
e la muta di cani  su di lui brulicante
e i servi tutti assieme a spartirsi i suoi brandelli.

Scrivo in un paese squartato dai macellai
e di cui si vedono i nervi, i budelli, le ossa
e di cui si vedono i boschi ardere come torce
e sul grano infuocato fuggire gli uccelli.

Scrivo in questa notte profonda e criminale
in cui sento il respiro dei soldati stranieri
in cui i treni soffocano lontano nei tunnel
da cui Dio sa se mai potranno venir fuori.

Scrivo in un campo chiuso dove dei due avversari
l'uno sembra un guardiano in armatura e palafreno
e l'altro lacerato atrocemente dalla spada
a lui per sola arma il suo eroismo e il suo diritto.

Scrivo in questa fossa dove non più un profeta
ma un popolo è disceso tra le bestie
al quale si intima di non dimenticare la sua disfatta
e di consegnare agli orsi la carne che è dovuta.

Scivo in questo scenario tragico in cui gli attori
hanno perduto il loro cammin il loro sonno il loro rango
in questo teatro vuoto dove gli usurpatori
annunciano grandi parole per i soli ignoranti.

Scrivo in questa ciurma enorme che mormora
scrivo in questo carcere perpetuo che la sera
rimbomba di messaggi bussati col pugno sulle pareti
infliggendo ai secondini strane smentite.

Come potrei parlarvi dei fiori
e che non ci si a dolore in tutto ciò che scrivo?
Del vecchio arcobaleno conosco solo tre colori
e le canzoni che amavo sono proibite.

Che possa lavare l'infamia di questo mondo
i suoi sogni interrotti e i suoi mostri maledetti.
Del paradiso perduto ritrovare la memoria
per rinnovare i miei versi con la sua melodia.

Dico con le parole delle cose inarrestabili
più inarrestabili che una tormenta di neve
parole meschine che si leggono nel gironale
ed io parlo con esse il linguaggio della folla.

Improvvisamente come una moneta caduta sull'asfalto
ci tornare indietro di alcuni passi
l'eco inconsapevole di una disgrazia ci colpisce
una parola caduta per caso una parola che non va detta.

Le parole francesi conservano la speranza di un doppio senso
come un prato non può dimenticare che ha piovuto
le più semplici parole hanno ancora più forza
esse vibrano a lunfo in un accordo assoluto.

Che io parli degli uccelli e delle metamorfosi
del mese d'agosto che matùra i frutti del tribolo
che parli del vento che parli delle rose
il mio canto è mesto e si muta in pianto.

I prati sono deflorati quando il mio popolo è torturato
e brucia nei suoi occhi un'altra poesia
tutto è ghermito in un tempo che ha l'odore dell'inferno
che rassomiglia alle cave di sale in Slesia.

E' un'assurdità mettere in rima
ciò che ciascuno conosce silenziosamente
ma servirà a mettere le ali ai loro crimini
cantare in versi francesi le infamie dei tedeschi.

Se non voglio parlare è perchè l'odio
abbia il suon di un tamburo per scandire il suo messaggio
ai confini della Polonia esiste una geènna
il cui nome sibila e soffia un'orribile canzone.

Auschwitz Auschwitz o sillabe sanguinanti
qui si vive si muore a fuoco lento
si chiama questa lunga esecuzione 
una parte dei nostri cuori vi perisce ogni giorno.

Confini della fame confini della forza
Neppure il Cristo ha conosciuto un cammino tanto duro
né tale interminabile e lacerante divorzio
dell'anima umana dal disumano universo.

Son questi gli Olimpici del dolore
In cui lo spavento supera la morte ad ogni colpo.
E noi abbiamo qui la nostra stirpe di Francia
e noi abbiamo qui cento nostre signore.

Ecco le cento spine di ferro di un'aureola
che corona di sangue un paese disgraziato
le cento lezioni di una scuola crudele 
dove abbiamo appreso l'amore del grido.

Non potrei qui ripeterli tutti
quei cento nomi dolci ai figli, ai fratelli, ai mariti.
Vi saluto in quest'ora di dolore
Maria Cladia divendo Io vi saluto Maria.

E quella che partì nella prima notte
come sale alla Libertà il primo grido
Marie-Louise Fleury restituita alla luce
al di là della tomba Io vi saluto Maria.

Vi saluto o Marie di Francia dai cento volti
e quelle tra voi che recano in eterno
la gloria inespiabile per assassini d'ostaggi
di sopravvivere solo a quelli che amavano.

E' tra voi che degli umini attendono
che fremono di sapere il male che vi hanno fatto
e di non scoprire di voi che la leggenda
e si piegano già sotto il terribile peso.

Avevano creduto di toccare il fondo dell'assenza
temono dal cielo una nuova crideltà
il vostro ritorno è per loro come una nascita
come rivedere il cuor che era stato strappato loro.

Ma dal dolore si può nascere all'amore
e voi narrerete tra le loro braccia il triste romanzo
vegliando di notte sognando di giorno
chei sorridiate tutto allora rifiorirà.

Quando tornerete perchè dovrete ritornare
ci saranno fiori quanti ne vorrete
ci saranno fiori color dell'avvenire
ci saranno fiori quando tornerete.

Prenderete posto dove il chiarore è dolce
i fanciulli baceranno le mani martoriate
e tutto ai vostri piedi ritornerà di muschio
musica nei vostri cuori quiete per riposarvi.

Respiro dei giardini sotto la notte nascente
fogliame d'estate profondità di praterie

Mi pare ripeta Io vi saluto Maria.

Io vi saluto Francia mia strappata ai fantasmi
o restituita alla pace Vascello salvato dalle acque
paese che canta Orléans Beaugency Vendome
campane campane suonate l'Angelus degli uccelli.

Io vi saluto Francia mia dagli occhi di tortora
non sarà mai troppo il mio amore mai troppo il mio tormento
Francia mia lamento antico e nuovo
suolo seminat di eroi cielo colmi di passeri.

I vi saluto Francia mia ove i venti si placarono
eterna Francia mia che la geografia
apre come una palma ai soffi del mare
perché l'uccello dal largo vi approdi e si affidi.

Io vi saluto Francia mia dove l'uccello in volo
Da Lilla a Ronceveaux da Brest al Mont-Cenisio
per la prima volta ha fatto esperienza
di quanto costi abbandonare il nido.

Patria ugualmente di colomba e di aquila
di audacia e di canto doppiamente dotata.
Io vi saluto Francia mia su cui i grani e le biade
maturano al sole delle stagioni.

Io vi saluto Francia mia dove il popolo è abile
a quelle fatiche che fanno i giorni meravigliosi.
Di lontano salutata nella sua città
Parigi mio cuore per tre anni vanamente fucilato.

Felice e forte infine che portare per bandiera
questo arcobaleno testimone che non tuonerà più
Libertà di cui freme il silenzio delle arpe
Francia mia ti saluto al di là del diluvio.


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