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Tudor Arghezi: giullare di Dio tra obbedienza e rivolta


È strano che la Filosofia, con la sua volontà razionale di coerenza, riesca tutt'al più ad insinuarci il dubbio e a far nascere nuovi interrogativi mentre la Poesia, incoerente e irrazionale, riesca spesso a fornirci delle verità che non riusciamo a confutare perché sono in risposta a domande che nemmeno sapevamo di avere.

Del resto, si sa, i poeti siamo spinti ad amarli prima ancora che a capirli, e come per le persone è inconsciamente che ci si ritrova, nello spazio vuoto del cuore, l'ingombro del nuovo amore. Spesso immotivatamente. Poi, con il tempo, ci si accorge delle impressionanti similitudini tra tutti gli ingombri che abbiamo (o abbiamo avuto) nel cuore: e se si è fortunati si capisce cos'è che ci attirava inconsciamente e ci faceva innamorare; se si è ancora più fortunati, però, si continua ad ignorarlo e ad innamorasi ignari.

Ho parlato, qualche post fa, della letteratura romena, in vista (scrivevo) di una contestualizzazione di alcuni autori di cui mi sarebbe piaciuto scrivere. Mi rendo conto, ora, che la contestualizzazione non serve. E non serve perché il primo di questi autori - Tudor Arghezi - oltre ad essere un poeta vero è anche uno di quei poeti che a me piace chiamare “rarefatti”, poeti che attingono ad un lessico universale, a tematiche eterne che raramente contaminano con le influenze del tempo in cui scrivono. Poeti che nel descrivere un violino, non descrivono quel particolare violino ma lo astraggono dal contesto e ne individuano gli elementi che ne costituiscono l'essenza.

Qui però, come ogni volta che si utilizza il termine “universale" (il più delle volte erroneamente), devo correggere il tiro e riconoscere che Arghezi visto l'ampio utilizzo di immagini cristiane, anche se inserite nel contesto (questo si universale) del continuo struggersi dell'uomo alla ricerca di Dio, diventa difficilmente interpretabile da un lettore “non occidentale” o comunque non cristiano. Ad ogni modo è proprio questa caratteristica di essere presunto “universale” a farmi amare Arghezi, così come per lo stesso motivo amo Reverdy. Del resto credo che ci siano (tra i tanti) due modi privilegiati di essere poeta: uno scrivendo da uomo per gli uomini; l'altro da cittadino per cittadini. E se devo essere sincero credo che il secondo sia più difficile da perseguire con successo, anche se poi da risultati eccellenti come ad esempio la poesia di Pasolini, poesia che però ha bisogno (questa si) di una mediazione, di una contestualizzazione, in un epoca ed in una precisa regione del mondo, per essere compresa pienamente.

Ma ritorniamo ad Arghezi e alla sua poesia di "uomo per gli uomini". Di suo, devo confessarvi, posseggo solo un mucchio di fotocopie con l'introduzione all'edizione Einaudi del 1972 ad opera di Marco Cugno, alcune poesie sparse, un saggio di Pasquale Bonincontro, credo del 1964, e la sua biografia così come viene raccontata in un manuale di letteratura romena. Poco, lo riconosco. Eppure mi era bastato ancora di meno non dico per innamorarmente ma almeno per restarne affascinato, con quella giusta dose di frivolezza per cui restiamo affascinati da una persona per il luccichio di un anello ben portato o per la curva precisa di un orecchio. Di Arghezi mi bastò leggere il primo verso di uno dei suoi Psalm (Salmi): 
Quando mi hai fatto, mi hai detto: ora vivi.
E son vissuto, così si racconta.” 
Ora non vorrei deludere coloro che si aspettano una biografia di Arghezi, perché non è mia intenzione scriverne una, anche se sarebbe doveroso vista la imbarazzante penuria di informazioni biografiche che è possibile reperire in lingua italiana su un qualsiasi motore di ricerca. Migliore invece la situazione editoriale, con la presenza di due diverse edizioni (nessuna delle quali recenti). Alla già citata edizione Einaudi del 1972 se ne aggiunge una della Mondadori del 1966 curata e tradotta da Salvatore Quasimodo. Ad ogni modo mi perdonerete se rimando (o forse prometto invano) una biografia di Arghezi ad un futuro non meglio precisato.

Questo post, invece, voglio dedicarlo a questi due soli versi, ai quali aggiungerò un'appendice poetica (in un post separato) con alcune poesie di Arghezi.

Uno dei problemi principali della poesia (e della vita) di Arghezi è, come già accennato, il rapporto con Dio. Una continua, inappagante e frustrante ricerca che rimase infruttuosa anche dopo quattro anni passati in convento. Ricerca anche fisica, che lo portò ad un giovanile vagabondaggio. 
Bastano già questi due soli dati biografici, la vita in convento e il vagabondaggio, a farci notare una delle caratteristiche (tra le più umane) di Arghezi. Quella contraddittorietà che caratterizzerà non solo la sua vita ma anche la sua poesia.

C'è in Arghezi la continua volontà di ascendere verso un Dio che egli ama e che proprio per questo amore, non ricevendo nulla in cambio, egli respinge con azioni di aperta rivolta. Arghezi, del resto, fu un grande innovatore sia per quanto riguarda la lingua si per quanto riguarda i temi della letteratura romena. In un modo si scriveva prima di lui - dicono gli intellettuali romeni - e in un altro dopo. Ma questo forse importa poco. Importa di più sapere che tipo di poeta fu Tudor Arghezi. Io, per quanto mi è dato di capire, lo considero come una sorta di giullare che apertamente loda e contemporaneamente ingiura il signore al cui servizio opera, e quel signore è Dio (o meglio il sentimento umano del divino). Un giullare del novecento, ovviamente, una sorta di saltimbanco così come li dipingeva Picasso, tanto per capirci. Del resto leggendo quel Testament che apre la sua prima raccolta, Cuvinte potrivite (Accordi di parole), è facile che venga alla mente una delle giullarate di Mistero Buffo di Dario Fò, in particolare quella della nascita del giullare. Infatti in Testament leggiamo: “Lo ha scritto il servo, lo legge il signore, / senza sapere che nel suo profondo / cova il furore dei miei antenati.”. La differenza semmai sta nel tono (che non è comico ma tragico), in quella voce che, dice Arghezi, era quella con cui si incitavano gli armenti e che lui ha accordato in parole. Gli ha dato, cioè, un tono nuovo, l'ha fatta diventare voce poetica, Poesia. In questo caso, però, quel signore di cui è servo il poeta non è solamente Dio bensì quel 10% a cui, da sempre, il 90% della popolazione è sottomesso (tanto per ricollegarci ad un tema che abbiamo già trattato con la Occupy wall street poetry anthology). Tema, questo della parentela, dell'affiliazione agli ultimi della classe, ai poveri, ai diseredati, che sarà sempre presente nella sua opera poetica.

Infatti la poesia di Arghezi è caratterizzata dall'introduzione di un lessico umile, maledetto così come umili e maledetti sono quegli ultimi della società a cui il poeta maggiormente si sente apparentato e a cui si rivolge nelle sue poesie. Ciò nonostante possiamo affermare che quel “padrone” che, come giullare, insieme lusinga e sbeffeggia non è solamente quella parte di società che detiene il potere e condanna tutti gli altri alla miseria, ma è anche Dio, quel Dio a cui si trova, volente o nolente, asservito.

Non si pensi ad una soluzione sociale, civile ed etica, di questo “dolore sordo ed amaro” che è la vita; la risoluzione semmai dovrebbe essere spirituale, ma nella poesia di Arghezi la spiritualità si risolve in due sentimenti opposti: quello panteistico (inteso come valore positivo) e quello più classicamente divino (valore negativo) inteso come un continuo prostrarsi ad un Dio che non ci risponde ed al quale alterniamo obbedienza e ribellione. Quella stessa voce che poi sarà tragicamente espressa da Beckett con il suo grido verso la divinità assente: “Maledetto, non esisti!”.

Dunque l'infelicità dell'uomo nasce da questo mistero insolubile, che gli fa dire: “C'è qualcosa di non misterioso nel mondo?”. Un mistero tragico che condanna Arghezi e con lui l'umanità tutta ad una vita di interrogativi senza soluzione: “La nostra vita... è legata ad un problema insolubile. Non capisco chi abbia potuto inventare le nozioni di ordine e chiarezza.
I Psalm (Salmi), di cui fanno parte i versi che cerco di spiegare, nascono come una sorta di soliloquio tra il poeta, in qualità di uomo, e la divinità muta.

Ecco dunque la grandiosità (liturgica verrebbe da dire) di questi versi: 
Quando mi hai fatto, mi hai detto: ora vivi.
E son vissuto, così si racconta.”
Quando mi hai fatto” – Con quest'incipit il poeta riconosce di essere stato creato da una Divinità, ma già, in virtù di quanto detto, glielo riconosce come una minaccia. Mi hai fatto, si: ecco la tua colpa! Avermi creato, istigandomi a crederti senza darmi nessun segno della tua vicinanza (“Se t'incalzo da presso è perché voglio / che Tu parli più spesso col tuo servo”). 

mi hai detto: ora vivi” - Qui il poeta riconosce l'onnipotenza divina e la sua obbedienza. Poeticamente, del resto, è mirabile perché esprime la volontà divina (“in principio era il verbo”) rendendo l'azione di Dio nel momento in cui si compie con la pronuncia, poiché azione e pronuncia coincidono. “Ora vivi” è la parola di Dio ma anche l'azione con cui gli da la vita. Quella vita, però, che lo condanna al mistero: “Per fede o per negazione / ostinatamente invano ti cerco / sei il mio sogno, fra tutti il più bello / e non oso abbatterti dal cielo”. 

E son vissuto, così si racconta” - Questo verso, infine, chiude il cerchio delle contraddizioni tipiche di Arghezi che se prima ci ha narrato la sua creazione di servo obbediente da parte di un Dio onnipotente ora, con grazia, potentemente si ribella. Dico con grazia perché la ribellione, fortissima, pure si attua con una sottile allusione. Dapprima c'è l'obbedienza, “ed io sono vissuto” dice il poeta, obbedendo al verbo imperativo con cui gli si è data la vita; ma poi conclude con quel “così si racconta” che cambia immediatamente registro, muta di tono, ci fa passare dal verbo/verità della prima parte al verbo/affabulazione solitamente usato nelle leggende o nei racconti popolari. È questo salto, salto compiuto dalla coscienza nel passare da un registro ad un altro, a solleticare l'anima del lettore, a dargli quell'ebrezza della rapida ascesa e dell'immediata caduta che dovrebbe essere caratteristica del sublime in poesia.

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