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...lungo la proda del bollor vermiglio!


[Già apparso sulla rivista online www.operaincerta.it n. 77 del 14 dicembre 2011)


Era il 3 giugno del 1944. Nel freddo distretto di Amburgo, nel nord della Germania, migliaia di italiani scontavano nello stalag di Sandbostel la colpa di appartenere all'esercito italiano. La maggior parte di loro si trovava già in territori occupati dai tedeschi, nostri alleati, quando l'8 settembre del '43 venne firmato l'armistizio. Fu facile per i tedeschi, diventati nostri nemici, bussare nelle caserme occupate dai soldati italiani e costringerli alla resa. Lo stalag di Sandbostel divenne il luogo di confino di tutti gli ufficiali e i soldati dell'esercito italiano catturati dai tedeschi. Tra di loro c'era l'allora Tenente Roberto Rebora ma anche tanti italiani che non erano e non diventarono mai grandi poeti, tutti, però, ci racconta Giovanni Guareschi nel suo Diario Clandestino (1943-1945), anche lui confinato a Sandbostel, si gettavano deliberatamente «nella mischia delle conferenze e delle discussioni storiche, politiche, filosofiche, artistiche e letterarie». Il motivo? Non impazzire «trascorrendo il tempo esclusivamente parlando di mangiare, pensando esclusivamente al mangiare». Discutono, ci racconta Guareschi, «di Proust, di Croce, di Marx, di Cézanne e di Leopardi», lo fanno per un istinto di conservazione, come una necessità affinché il loro spirito sopravviva.
Il 3 giugno del 1944 gli italiani lì confinati avevano inaugurato da poco la Regia Università di Sandbostel, si erano immaginati di trasformare le baracche del lager in aule universitarie: nella baracca X, c'era l'aula di giurisprudenza, in quella Z si insegnava Ingegneria, dietro la baracca Y si tenevano lezioni di Belle Lettere.
Quel 3 giugno del 1944 un gruppo più o meno folto di prigionieri si era radunato per ascoltare versi di Dante:

lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: "E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni...

Non si trattava di un canto qualunque, ma proprio di quel XII canto dell'Inferno in cui Dante racconta le pene inflitte ai tiranni, condannati a rimanere immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente, e vittime della violenza del Minotauro, custode di tutto il cerchio, e dei centauri. Probabilmente ascoltando questi versi fu facile per loro immaginarsi al posto dei nomi citati da Dante (da Dioniso il vecchio di Siracusa, a Obizzo d'Este) il nome di nuovi tiranni. E ancora oggi rileggendo questi versi è facile aggiungere a quell'elenco una schiera di nuovi tiranni.
Alfieri nel suo “Della Tirannide” ci ricorda che: «TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi». Poi aggiunge: «E tanta è la cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli aveano».
La tirannia, dunque, ci ricorda Alfieri, non riguarda, come invece sembra aver assunto nel senso moderno, un giudizio del merito ma della forma. Non riguarda cioè l'atto, a volte esso stesso di sopprusso, con cui il Tiranno va al potere e nemmeno la maniera con cui il potere viene gestito, ad esempio da parte di un Principe illuminato, quanto il fatto stesso di detenerlo e di esercitarlo a discapito di quanti soggiacciono a quel potere. Continua infatti l'Alfieri: «Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia».
È facile, dunque, aggiornare il lessico usato dall'Alfieri nel 1777 quando, ventottenne, scrisse questi pensieri e sostituire i termini “re” e “principi” con “presidenti” e “primi ministri”, ma il risultato sarebbe fuorviante anche se è facile trovare degli esempi per cui questo aggiornamento di termini possa essere pienamente accettato.
Abbiamo tutti quanti assistito, negli ultimi mesi, e tutti più o meno incredulamente, alle rivolte del mondo arabo. Nessuno però, se non pochi, si era interrogato circa i motivi per cui così tante persone di quelle regioni, già da anni, preferivano rischiare la morte per attraversare il mediterraneo e raggiungere le nostre coste. Nessuno, se non pochi, si era mai interrogato sulle loro forme di governo e del resto, anche quando qualcuno l'avesse voluto fare, le informazioni che avrebbe trovato a quel riguardo sarebbero state rassicuranti.
Dell'Egitto o della Tunisia conosciamo il nome di luoghi divenuti famosi per via delle agenzie di viaggio di tutto il mondo. Chi, potendoselo permettere, non è stato o non sarebbe andato volentieri a passare le proprie vacanze a Sharm El Sheik o sulle spiagge Tunisine? Ma è proprio dalla Tunisia che sono cominciate le rivolte del mondo arabo.
Senza ricorrere all'immagine di Gheddafi, che più di altri “tiranni” del mondo arabo ci è familiare, per le connivenze e le benevole accoglienze del mondo occidentale, anche gli altri “tiranni” dei paesi della zona mediterranea dell'Africa ci sono stati presentati come “presidenti” o come “primi ministri” e anche i loro paesi ci venivano descritti come luoghi liberi, un po' più poveri del nostro, ma in crescita e sempre più vicini al mondo occidentale.
Quando il 17 dicembre del 2010 Mohamed Bouazizi si dette fuoco davanti al municipio di Sidi Bouzid, dando inizio alle prime proteste contro il “presidente” Zine El Abidine Ben Alì, in carica dal 1987, nessuno di noi capiva veramente cosa stava succedendo. Non potevamo capirlo, del resto, perchè in pochi conoscevano la realtà tunisina, pochissimi conoscevano le rivelazioni che Fulvio Martini, nel 1987 a capo del Sismi, ha rilasciato nel 1999 illustrando il ruolo avuto dai nostri servizi segreti nel “golpe” con cui fu portato al potere Ben Alì; nessuno conosceva l'ATCE (Agence Tunisienne de Communication Extérieure) e nessuno sapeva che detiene il controllo totale dei media tunisini; nessuno sapeva delle rivolte che già nel 2008 si erano fatte nella regione mineraria di Gafsa durante le quali furono uccise tre persone, un centinaio vennero ferite, e molti dei manifestanti vennero incarcerati, torturati e successivamente condannati; nessuno conosceva le politiche oligarchiche dell'UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail).
Quello che conoscevamo erano i comunicati stampa e le dichiarazioni trasmesse da ministri e da presidenti delle democrazie occidentali o le analisi del mondo della finanza.
La Tunisia, per l'occidente, era un economia che cresceva al ritmo del 5% e quindi da indicare come modello per tutto il mondo arabo. Nicolas Sarkozy salutava l'amico Ben Ali dichiarando: “l'espace des libertés progresse en Tunisie”. In Tunisia sedevano regolarmente illustri professori occidentali presso la “Cattedra Ben Ali”, creata nel 2001 per diffondere un'immagine positiva del regime. L'università di Macerata conferiva nel 2007 la Laurea ad honorem a Ben Ali, e altrettanto avrebbe fatto l'università di Messina se non fossero sopraggiunte le rivolte. Nel 2005 l'ONU sceglieva Tunisi come sede per la seconda fase del Vertice Mondiale della Società dell'Informazione (VMSI). Infine, Dominique Strauss-Kahn, allora presidente del Fondo Monetario Internazionale (FMI), parlando della Tunisia dichiarava: “La politica economica adottata dal Governo è una politica sana e costituisce un modello da seguire per molti paesi emergenti”.
Forse, nel mondo dell'economia globale, nel mondo dei grandi sistemi finanziari, la “tirannia” è molto più complessa da definire e da individuare di quanto non lo fosse in passato, ma non mi sembra che sia ancora venuto il tempo in cui la complessità di riconoscerla venga accompagnata dalla sua pigra accettazione ed anzi stupisce la semplicità con cui interi popoli riescano a trovare la forza di condannarla e di combatterla, come ci insegnano il popolo tunisino e gli altri che hanno o continuano, in quelle zone, a combattere per la loro libertà e per quella dignità che solo la libertà può dare.

disse ’l centauro, "voglio che tu credi
che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema”.


Bibliografia

GUARESCHI GIOVANNI, Diario clandestino 1943-1945. Milano: BUR, 2009.

ALIGHIERI DANTE, Divina Commedia: inferno, purgatorio, paradiso, introduzione di Italo Borzi, commento a cura di Giovanni Fallani e Silvio Zennaro; cronologia di Nicola Maggi. Roma: Biblioteca economica Newton, 1996.

ALFIERI VITTORIO, Della tirannide, introduzione e nota bibliografica di Marco Cerruti, note di Ezio Falcomer. Milano: BUR, 2006.

RIZZI FRANCO, Mediterraneo in rivolta, introduzione di Lucio Caracciolo. Roma: Castelvecchi, 2011.

Fonti web

CHIANURA CARLO, L'Italia dietro il golpe in Tunisia. laRepubblica.it: 10 ottobre 1999.

NIGRO VINCENZO, Tunisia, il golpe italiano. "Sì, scegliemmo Ben Alì", laRepubblica.it: 11 ottobre 1999.

Macerata: Ministro tunisino, incontro anticipato e laurea h.c. A Ben Ali, Viveremarche.it: 23 febbraio 2007.

Sarkozy assure que "l'espace des libertés progresse", Saphirnews.com: 29 avril 2008.



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