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Le Droit au travail

Nel 1848 in Francia una Assemblea costituente dibatteva dei principi che sarebbero stati alla base della Repubblica chiedendosi se dei politici potessero inserire un preambolo filosofico ad una costituzione, se potessero parlare di doveri e di diritti. La lettura di quelle trascrizioni, ai tempi, fu per me uno spartiacque della mia vita di cittadino e di uomo. Ancora oggi, quel fascio di fogli legati da una spirale di plastica nera, sgangherato ed esteticamente poco piacevole alla vista, riproduzione integrale di un testo protetto da copyright, rappresenta uno dei libri più “belli” della mia libreria mentale. Una di quelle cose di cui vado fiero. Lo lessi in uno di quei pomeriggi che avrei potuto spendere partecipando a qualche gioco a premi televisivo condotto da Mike Bongiorno e che invece, fortuitamente, spesi in maniera differente.
 
Vi copio solo alcune parole della relazione iniziale di Armand Marrast, Presidente dell’Assemblea costituente francese e relatore della commissione di Costituzione, pronunciate durante la seduta del 30 agosto 1848. Fu, quella, una “mémorable discussion” che vide confrontarsi Tocqueville, Lamartine, Cremieux, Dufaure, Ledrù-Rollin, Thiers… e che introdusse il concetto nuovo di diritto al lavoro facendo emergere l’idea dell’esistenza di una proprietà sociale, acquisizione decisiva della modernità e sulla base della quale si riformulerà in termini nuovi il conflitto secolare tra la proprietà e il lavoro
 
«Noi siamo convinti ed affermiamo che una società è male ordinata quando migliaia di uomini onesti, validi, laboriosi, che non hanno altra proprietà che le loro braccia, altri mezzi di esistenza che il salario, si vedono condannati senza risorse agli orrori della fame, alle angosce della disperazione o all’umiliazione dell’elemosina […]
Noi diciamo: quando un cittadino, la cui vita è rappresentata dal suo lavoro, offre questo lavoro per sfamarsi, per sfamare la moglie, i figli, un vecchio padre, una famiglia, se la società impassibile volge gli occhi altrove, se risponde: “non ho che fare del vostro lavoro, cercate o morite, morite voi e i vostri”. Questa società è senza viscere, senza virtù, senza moralità, senza sicurezza. Essa oltraggia la giustizia, rivolta l’umanità; essa agisce calpestando tutti i principi che la Repubblica proclama.
In nome di questi principi, abbiamo scritto nella Costituzione il diritto di vivere mediante il lavoro, il diritto al lavoro. [...]
La Repubblica non deve limitarsi a proteggere la libertà, la proprietà, la famiglia, bisogni primitivi, bisogni imperituri dell’umanità. [...]
La sua fede le assegna una missione più ampia e più elevata. Essa è la nutrice attiva e benefica di tutti i suoi figli; essa non permette che questi marciscano nell’ignoranza, che si corrompano nella miseria; essa non resta indifferente davanti a quelle crisi dell’industria che gettano eserciti di salariati sulle piazze, con l’invidia nel cuore, il risentimento e la bestemmia alla bocca: implacabile contro la rivolta essa raccomanda, onora il lavoro, lo aiuta con le sue leggi, ne garantisce la libertà; ma quando una disoccupazione forzata viene a paralizzare questo lavoro, essa non chiude il suo cuore, non si limita a piangere, a dire “fatalità!”, no, essa fa appello a tutte le sue risorse e grida: “Fraternità!”».
 
 

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