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Marwan Makhoul, un poeta palestinese che vive in Israele


Marwan Makhoul è nato da un padre palestinese e da una mamma libanese nel 1979 nel villaggio di Boquai’a. Galilea superiore, ovvero una regione della Palestina. Attualmente vive a Maalot Tarshiha, Israele. In uno dei suoi versi ha scritto: “Ci sono cose che non capisco / poiché non sono israeliano / ma nemmeno interamente palestinese.”
Marwan ha conseguito la laurea in Ingegneria civile al Al-Mustaqbal College ed attualmente lavora come ingegnere civile e dirige una compagnia edile.
Il suo primo libro di poesie, “Land of the Sad Passiflora”, è stato pubblicato nel 2007 sia a Beirut che Baghdad dall’editore Al-Jamal, una seconda edizione ad Haifa dall’editore Maktabat Kul Shai, una terza edizione al Cairo.


Notizie reperite da:
Eli Eliyahu, Both Israeli and Arab, a poet straddles a conflict, «Haaretz», Oct. 3, 2012.
Banipal, Magazine of Modern Arab Literature

Poesie

La differenza

Non c’è alcuna differenza tra il giorno e la notte
Se non il dolce gusto del sole.
Non c’è alcuna differenza tra un ubriacone ed un fedele
Se non l’onestà dello stampo.
Non c’è alcuna differenza tra gli alberi e le rose
Se non il ruolo degli alberi negli annali di storia.
Non c’è alcuna differenza tra me e te.
Nessuna.

The Difference

There is no difference between night and day
but the sweet taste of the sun.
There is no difference between a drunkard and a devotee
but the honesty of the former.
There is no difference between trees and roses
but the role of trees in the annals of history.
There is no difference between me and you.
No difference at all.


Salve, Beit Hanoun*

Salve!

Beit Hanoun?

Ho sentito al Tg
Che è venuto un mastro fornaio
A distribuire pane
Alle spalle dell’artiglieria,
ho sentio pure
che una sola delle sue pagnotte sfama
ben venti bambini
ed è calda da bruciarsi, e solida
come uno degli edifici scelti a caso come bersaglio.

Non avrei mai immaginato, Beit Hanoun,
che tu avresti significato qualcosa per me
con tutto il divertimento che sto avendo
impegnato come sono a discutere con gli amici
se il vino della botte
sta fermentando o meno.
Non ho mai saputo che avresti significato per me,
nemmeno qualcosa di piccolo,
qualcosa di piccolo, Beit Hanoun.

Salve…?

Salve…?

Beit Hanoun?
Riesci a sentirmi?
Penso che il telefono sia rotto,
o forse è addormentato.
È molto tardi dopo tutto.
Non importa, non fa niente.
Non ho niente di meglio da fare
Che raggiungere i miei fratelli che prendono riparo
Al tronco reciso della solidarietà araba.

Arrivederci, Beit Hanoun.

Arrivederci.

*[ Beit Hanun è una città di 35.000 abitanti, amministrata dall'Autorità Nazionale Palestinese, come il resto della striscia di Gaza. Poiché nel 2005, prima del ritiro israeliano dalla striscia di Gaza, Beit Hanun era stata una base da cui i combattenti di Hamas avevano lanciato razzi Qassam (di fabbricazione artigianale locale) contro le città settentrionali del Deserto del Negev, come Sderot e contro gli insediamenti di Katif, la città è stata colpita da ripetuti bombardamenti delle forze d'occupazione israeliane.]


Hello, Beit Hanoun

Hello!

Beit Hanoun?

I heard on the news
that an artisan baker has come
to distribute bread
on the back of fresh artillery,
and I also heard
that one of his loaves feeds
at least twenty children
and is so warm it burns, and is solid
like a randomly targeted shell.

I never imagined, Beit Hanoun,
that you’d mean anything to me
what with all the fun I’m having
like being busy with friends discussing
whether wine in the bottle
ferments or not.
I never knew you’d mean anything to me,
even something small,
something small, Beit Hanoun.

Hello…?

Hello…?

Beit Hanoun?
Can you hear me?
I think the phone’s not working,
or is perhaps asleep.
It is very late after all.
Never mind, let it go.
I’ve nothing better to do
than catch up with my brothers shading themselves
by the axed trunk of Arab solidarity.

Goodbye, Beit Hanoun.

Goodbye.


Un arabo all’aeroporto Ben Gurion

Io sono Arabo!
Gridai, all’ingresso delle Partenze,
anticipando la donna soldato.
Sono andato verso di lei e le ho detto! M’interroghi! Ma
Faccia presto, se non le dispiace. Non vorrei perdere
Il mio aereo.

Lei mi disse: Da dove viene?

Discendente di Ghassassanian, re di Golan, il mio eroismo, dissi.
La mia vicina è Rehab, la meretrice di Gerico
Che fece l’occhiolino a Joshua sulla via della banca occidentale
Il giorno che occupò la terra che la storia venne ad abitare dopo di lui
Sin dall’inizio.
Le mie risposte sono ferme come granito di Hebron:
Sono nato al tempo dei Moabiti che vennero prima di te
In questa docile terra antica.
Mio padre, un Cananita,
Mia madre, fenicia del vecchio libano meridionale.
Mia madre, sua madre è morta due mesi fa
E lei due mesi fa non ha potuto salutarla.
Ho pianto fra le sue braccia così che il guardiano di Buqaya possa consolare
Il peggior anelito di tragedia e la sorte:
Libano, tu sembri un’impossibile sorella,
e la madre di mia madre abbandonata
lassù!

Lei mi chiese: chi le ha fatto le valigie?

Dissi: Obama Ibn Laden! Ma aspetti,
stia calma. È soltanto una battuta di cattivo gusto,
un giocetto che i realisti come me usano professionalmente
per protesta.
Sessanta anni ho combattuto con le parole per la pace.
Io non colpisco nessun insediamento di coloni
Al contrario di voi non ho cingolati
Guidati da soldati per stuzzicare Gaza.
Sganciare una bomba da un Apache non è sul mio CV
E non per scarsa competenza,
no, piuttosto perché vedo all’orizzonte un’increspatura che fa eco
abbastanza per la fuori posto rivolta dei non violenti
e per le buone maniere.

Nessuno le ha dato qualcosa mentre si recava all’aeroporto? Mi chiese.

Le dissi: un esule di Nayrab rifugiato al campo
Mi ha consegnato i suoi ricordi
E la chiave di una casa da un magnifico passato.
La ruggine mi ha ferito, ma io sono
Come l’acciaio immacolato, mi rinsaldo, dovrei diventar nostalgico?,
grazie ai lamenti dei rifugiati
le ali del desiderio superano i confini.
Nessuna guardia li può fermare, nemmeno mille
E non tu di certo.

Lei disse: Ha oggetti contundenti in suo possesso?

Le dissi: la mia passione
La mia pelle, la mia carnagione olivastra
Il mio essere nato qui nell’innocenza, ma per destino.
A diciassette anni ero Pessi-ottimista
Mentre ora io sono ottimista circa i ruggiti della disobbedienza
Proprio ora essendo cresciuto per te al carcere di Gilboa.
Sono andato dritto fuori dal
Tragico racconto della storia, la fine della storia
Un funerale per il passato e un matrimonio
nella non lontana sala della speranza.
L’uva della valle della giordania mi ha cresciuto
e mi ha insegnato a parlare.
Ho un figlio a cui ho postposto il dovuto appuntamento, così che lui arriverà
In un mattino non fatto del niente di cui è fatto l’oggi, figlia dell’Ucraina.
Il cantare dei muezzin mi commuove, nonostante sia un ateo.
Grido per zittire le dolenti lamentele dei flauti,
per mutare gli spari nell’immortale sforzo dei violini.

Il soldato mi prese in consegna per cercare fra le mie cose
Ordinandomi di aprire il mio bagaglio.
Faccio ciò che mi si chiede!
E dal profondo del mio bagaglio cola il mio cuore e il mio canto,
il significato di tutto svanisce eloquentemente e crudelmente, dentro tutto ciò che sono.

Lei mi chiese: cos’è questo?

Le dissi: la sura del viaggio notturno che sale la scala delle mie vene, il Tafsir di Jalalayn,
la poetica di Abu Tayyeb al-Mutannabi e mia sorella Maram,
come fotografia e realtà allo stesso tempo,
scialle di seta per avvolgermi e proteggermi dal freddo del mio esilio dai parenti,
tabacco preso in un chiosco ad Arraba per farmi filare la testa finché i dubbi non la fanno ubriaca.
Dentro di me una fiera lealtà, il timo selvaggio della mia terra,
la fierezza dei boccioli di melagrana, galileani e lucenti.
Dentro di me agata, legno di canfora, incenso ed il mio essere vivo,
la perla di Haifa: scintillante, lucente, luminosa,
irragionevole, rilassata nel pacco del nostro ritorno per una sola
ragione: abbiamo venerato le nostre buone intenzioni e costretto
Nabka, quel giorno disastroso, a scivolare nel passato e in me!

Il soldato mi consegna al poliziotto
Che mi perquisisce e grida sorpreso:
e questo?

Il vigore della mia nazione, dico
E la mia progenie, l’ovile della mia famiglia e due uova di piccione
Da covare, maschio e femmina, da me e per me.
Mi perquisisce
Alla ricerca di qualunque cosa possa fare da minaccia
Ma questo straniero è cieco
Poiché si scorda la più distruttiva e importante delle bombe che ho dentro:
il mio spirito, la mia provocazione, la mia picchiata di falco nel mio alito e nel corpo
il mio marchio di nascita e il mio valore. Che sono io
intero e nel complesso in un modo che questo stolto
non sarà mai in grado di vedere.

Ora, dopo due ore di stretta psicologica
Mi lecco le ferite per almeno cinque minuti
Poi mi imbarco sull’aereo che decolla. Non per partire
Non per ritornare
Ma per vederlo sotto di me il soldato
Il poliziotto nell’inno nazionale delle mie scarpe, anche lui sotto
E sotto di me il grande inganno di una storia in lattina
Come Ben Gurion è diventato come sempre, come sempre,
sotto di me.


An Arab at Ben Gurion Airport

I’m an Arab!
I shouted, at the doorway to departures,
short-cutting the woman soldier’s path to me.
I went up to her and said: Interrogate me! But
quickly, if you don’t mind. I don’t want to miss
departure time.

She said: Where are you from?

Descended from Ghassassanian kings of Golan is my heroism, I said.
My neighbour was Rehab the harlot of Jericho
who gave Joshua the wink on his way to the West Bank
the day he occupied the land that occupied history after him
from the very first page.
My answers are as stony as Hebron granite:
I was born in the time of the Moabites who came down before you
to this submissive ancient land.
My father a Canaanite
my mother a Phoenician, from South Lebanon of old.
My mother, her mother died two months ago
and she was unable to see her mother off two months ago.
I wept in her arms so that on-looking from Buqaya might console
the worst blow of tragedy and fate:
Lebanon, you see impossible sister,
and my mother’s mother alone
to the north!

She asked me: Who packed your bag for you?

I said: Osama Ibn Laden! But hold on,
take it easy. It’s no more than a joke in poor taste,
a quip that the realists here like me use professionally
for the struggle.
Sixty years I’ve fought with words about peace.
I don’t attack any settlement
and I don’t have a tank like you do
ridden by a soldier to tickle Gaza.
Dropping a bomb from an Apache isn’t on my CV
not because I lack qualifications,
no, but because I see on the horizon a ripple echoing
enough to the out-of-place revolt of the non-violent
and to good behaviour.

Did anyone give you something on the way here? she asked.

I said: An exile from Nayrab refugee camp
gave me memories
and the key to a house from the fabled past.
The rust on the key made me edgy, but I’m
like stainless steel, I compose self with self should I grow nostalgic,
for the groans of refugees
spread wings of longing across borders.
No guard can stop it, nor thousands
and not you for sure.

She said: Do you have any sharp implements in your possession?

I said: My passion
my skin, my olive complexion
my being born here in innocence, but for fate.
Pess-optimistic I was in the seventies
but I’m optimistic about the roars of disobedience
right now being raised to you in Gilboa gaol.
I’m straight out of the
tragic novels of history, the end of the story
a funeral for the past and a wedding
in the not far-off hall of hope.
A raisin from the Jordan Valley raised me
and taught me to speak.
I have a child whose due date I postponed, so he’ll arrive
to a morning not made of straw like today, daughter of Ukraine.
The muezzin’s chanting moves me, even though I’m an atheist.
I shout to mute the mournful wailing of the flutes,
to turn pistols into the undying strains of violins.

The soldier took me to search my things
ordering me to open my bag.
I do what she wants!
And from the depths of the bag ooze my heart and my song,
the meaning of it all slips out eloquently and crudely, within it all that is me.

She asked me: And what’s this?

I said: The sura of the Night Journey ascending the ladder of my veins, the Tafsir of Jalalayn,
the poetry of Abu Tayyeb al-Mutannabi and my sister Maram,
as a photograph and real at the same time,
a silk shawl to enwrap and protect me from the chill exile of relatives,
tobacco from a kiosk in Arraba that made my head spin until doubts got stoned.
Inside me a fierce loyalty, the wild thyme of my country,
the fieriness of pomegranate blossoms, Galilean and sparkling.
Inside me agate, camphor-wood, incense and my being alive,
the pearl that is Haifa: scintillating, everlasting, illuminating,
preposterous, relaxing in the pocket of our return for one reason
only: we worshipped our good intentions and bound
the nakba to a slip in the past and in me!

The soldier hands me over to a policeman
who pats me down and shouts in surprise:
What’s this!?

The manhood of my nation, I say
and my progeny, the fold of my family and two dove’s eggs
to hatch, male and female, from me and for me.
He searches me
for anything that could pose a threat
but this stranger is blind
forgetting the more destructive and important bombs within:
my spirit, my defiance, the swoop of the hawk in my breath and my body
my birthmark and my valour. That is me
whole and complete in a way this fool
will never see.

Now, after two hours of psychological grappling
I lick my wounds for a sufficient five minutes
then embark on the plane that has taken off. Not to leave
and not to return
but to see the soldier below me
the policeman in the national anthem of my shoes below me
and below me a big lie of tin-can history
like Ben Gurion become as always, as always, as always
below me.

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