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Il castigo, una poesia di Mario Scalesi






Mario Scalisi [sic], era questo il suo vero cognome, era nato a Tunisi. Il padre, di origini trapanesi, era un sottoufficiale della Marina italiana che aveva dovuto emigrare clandestinamente a Tunisi a seguito di una controversia con un agente di polizia. La madre, invece, era nata a Tunisi ma era figlia di un genovese e di una maltese.
Quella Scalisi era una famiglia poverissima. Tuttavia non sarà solo la miseria a fare di Scalesi un poeta maudit. Vi contribuì fortemente non solo la nascita tubercolitica, ma anche una caduta che al suo quinto anno di età lo storpio irreparabilmente.
Mario Scalesi andò incontro ad un progressivo deterioramento fisico e mentale che lo portò verso la pazzia. Una meningite lo costrinze al ricovero presso l'ospedale Garibaldi di Tunisi e al successivo internamento nel manicomio Vignicella di Palermo dove morirà nel 1922 e il suo corpo gettato in una fossa comune del cimitero cittadino.
 
 Il castigo

Una notte in cui l'inverno aveva troppo trionfato,
Infreddolito, entrai dentro un caffé.
Bevvi. Era caldo. Stavo bene. L'acquazzone
e la tramontana che morde le ossa e le attraversa
aveva reso la strada un pantano tenebroso,
un deserto; pioggia e vento si flagellavano a vicenda.
L'acqua bagnava il marciapiede e appannava i vetri
del bar e, sotto le luci flebili dei lampioni,
nel punto in cui, biforcandosi, le linee del tram
mostravano le loro rotaie luccicanti abbondantemente lavate,
intravidi, tra la pioggia che cadeva  e l'ombra
il mio vecchio padre curvo dentro il suo cappotto scuro.
Era lì che esercitava il suo mestiere di scambista.
Non nutriva speranza alcuna di un futuro migliore,
per lui non v'era scampo. L'acqua chizzando e cadendo
gli colava sopra il collo e gli ammollava i baffi.
Lo sentivo tossire fino a strapparglisi
i polmoni nello sforzo di sputare.
Certamente il vegliardo espiava qualche colpa.
Un essere umano non viene abbandonato, senza ragione,
nell'indifferenza, al furore del cielo.
Indubitabilmente egli era un criminale..
Vediamo: per trentasei anni, sfinito dalla miseria,
aveva lavorato per un salario magro,
sempre onesto, sempre preciso, sempre sottomesso.
Se parlava dei suoi capi, li chiamava: "amici!"
ma, allora, ciò che in  lui puniva la tempesta,
era il crimine d'essere un miserabile, d'essere onesto
e di amare troppo il proprio lavoro?
A meno che questa non fosse la sua rassegnazione.

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