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Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore (...una ragna di parole)


Ho sempre avuto l’impressione che Bufalino più che curarsi, scrivendo, volesse condividere con noi quello che era il suo tormento, che volesse contagiarci, insomma. Che volesse curarsi scrivendo, del resto, è lui stesso a dirlo; nella “locandina delle intenzioni” di Argo il cieco scrive: “perduta per timidezza l’occasione di morire, uno scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro felice”. Identica cosa scrive nel “Bugiardino” che correda Qui pro quo, dove nel paragrafetto delle intenzioni scrive: “Curarsi scrivendo”.
Tuttavia il dubbio del contagio non può non venirci; in Diceria dell’untore fa dire a Marta: “E sento, so, di spargere e ungere dappertutto la morte […] A volte mi viene un’idea: di usare di proposito un tale onnipotente potere d’incubazione e di semina; mi vedo entrare in una casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con diligenza ai quattro canti di ciascuna stanza…”. Idea che viene ribadita in Istruzioni per l’uso che, pubblicate separatamente, corredano Diceria dell’untore e ne spiegano i motivi, le trame, i personaggi. Giustificando la creazione del suo romanzo, Bufalino scrive: “Ma soprattutto da un’esigenza e da un turgore espressivo: c’era in me un grumo di parole che voleva liberarsi e che coagulai attorno ad eventi di morte e di estate, e sotto il segno, metaforico e reale, del contagio.”
Di Bufalino, del resto, mi è sempre piaciuta la volontà, che ha sempre avuto, di spiegarsi; ignaro, o troppo consapevole, che ogni parola aggiunta anziché meglio spiegarsi aumenta i possibili fraintendimenti. Ci giocava, infatti, Bufalino con le parole, con la retorica, con i generi.
Quello di Bufalino, però, mi è sempre parso un mondo clustrofobico, una mise en abyme di significati in cui ogni parola ha bisogno di un’altra che la spieghi, che la amplifichi, che ne rimarchi l’eco. E tutte insieme hanno un bisogno continuo di giustificarsi.
Sempre in Istruzioni per l’uso è emblematico che Bufalino chiuda il paragrafo intitolato “Idea del libro” con queste parole: “Detto tutto ciò io non sarò mai un buon avvocato della necessità di questo, come di qualsiasi altro libro…”

Parlare di Diceria dell’untore, dunque, sembra superfluo. Bufalino fa tutto da se. Se la canta e se la suona, come si dice. In pratica scrive l’opera e si scrive pure il commento, e fosse stato per lui si sarebbe bastato come unico lettore. Anche dopo Diceria, infatti, diventa sempre più difficile distinguere dove finisce l’opera e dove comincia il commento.
In virtù di quanto scritto sembra superfluo commentare Diceria dell’untore, visto oltretutto che, sempre in Istruzioni per l’uso, è lui stesso ad individuarne i temi, le motivazioni, lo stile… Per cui mi contenterò, in questo mio capriccio di giocare a fare il letterato, a sprecare poche parole.
Do per scontato il siparietto, seppure da Gran Teatro, montato ad arte da Bufalino; quello che in Istruzioni per l’uso l’autore stesso chiama “Tema del teatro, della finzione scenica (il sanatorio come palcoscenico di voci soliste…)”; ma lo uso per dargli una nuova veste.
Non so a voi, ma a me, sin dalle prime pagine sono venute in mente le opere teatrali di Samuel Beckett. Niente di più lontano, direte voi, tra i due scrittori. Daccordo. Eppure questo palcoscenico privo d’intreccio, questi due atti sempre uguali del giorno e del nuovo giorno, mi hanno subito dato l’impressione, mentre come mio solito leggendo me li immaginavo recitati nel palcoscenico dei miei pensieri, di un opera di Beckett. Provo a motivare quest’impressione che potrebbe anche essere solo emozionale (sempre che le emozioni non siano razionali).
Innanzitutto il tempo, congelato, in cui si svolgono i drammi di Beckett. Poi la perenne (forse umana) condizione dell’attesa (di Godot, della Fine, della Morte). La condizione dell’uomo, inoltre, che non solo non riesce più a trovare se stesso ma nemmeno si cerca. L’impossibilità del linguaggio; non più concepibile: gli individui non possono più comunicare tra di loro. Inoltre il sentimento di impotenza, personale e universale, nei confronti della vita (“siete al mondo, non c’è più rimedio” si dice in Finale di partita). Infine, il frequente utilizzo di un linguaggio meta-letterario e l’assoluta padronanza, l’estrema lucidità con cui viene trattata la “materia” letteraria.
Queste, a mio avviso, alcune delle caratteristiche che i due autori, Beckett e Bufalino, condividono. Ed è sotto questa luce che voglio evidenziare alcuni aspetti di Diceria dell’Untore.
A proposito della maniera in cui viene concepito il “tempo” nel romanzo di Bufalino, sono frequenti le allusioni alla sua immobilità. “Si cercava, alla Rocca, un modo di riempire la bolla vacante dei giorni” dice delle giornate passate in sanatorio. Ma questa dimensione del tempo assume una valenza universale allorquando, rievocando la prima giovinezza del protagonista, cioè fuori dal sanatorio, scrive: “Imparai ad andare con la gente dei campi, a raccogliere la senape, le ulive, le lumie; solo per stancarmi le mani, per poter dormire la sera”. Si tratta sempre d'impiegare il tempo.
Sembra infatti che l’uomo, nel mondo romanzato di Bufalino, non occupi più una posizione privilegiata, ma sia una tra le tante cose del mondo: “recuperavo […] la mia cubatura d’aria dentro la stanza”. Per lo stesso motivo, subito dopo la sua morte Marta appare: “… di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa”.
In questo mondo in cui bisogna cercare un modo per passare il tempo, nemmeno comunicare è possibile. Marta, dopo la lunga storia che racconta al protagonista, dice: “Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra”; un altro modo per passare il tempo. O ancora il protagonista che, con una battuta veramente Beckettiana, dice: “Intendiamoci non voglio che tu mi sia amico, se ti parlo, non è per sentirti parlare, ma per impedirtelo”.
Gli uomini, dunque, hanno perso la loro condizione umana, il Gran Magro ad esempio li ricorda per annate, come per i vini; ugualmente Marta, continuando questa disumanizzazione, dice: “Così ero. Così bella. Col mio sorriso del ’42. La mia annata migliore”.
Tutto si risolve in un tempo infinito che sembra non aver avuto inizio e che non ha mai fine. Un tempo da riempire e in cui non c’è alcun Dio a cui credere. C’è un Dio in realtà, come dice il Gran Magro: “Esiste,” gridava “esiste: non c’è colpa senza colpevole!”. Ma anche Dio è un povero diavolo in questo universo creato da Bufalino, almeno stando alle parole che fa pronunciare al suo protagonista: “È per amore che ti ha tratto dal nulla” disse piano [Padre Vittorio]. Ed io: “Di sé, non di me. Oppure per la fatica della propria impeccabile solitudine…”.
Tutto si risolve, però, almeno per Bufalino, nella scrittura. Una scrittura che non racconta la vita, ma la sostituisce. E se lo rimprovera, forse, un poco, Bufalino, quando dice: “Ma io avevo più letto libri che vissuto giorni”; così come qualche pagina prima aveva scritto, riferito al protagonista e forse un poco anche a se stesso: “Povero amico. Sei tu che vivi in una ragna di parole e ti ci avvoltoli dentro”.

Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore, Milano, Bompiani, 2012

Qui il sito della Fondazione Gesualdo Bufalino

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