Mi capita quasi sempre
leggendo autori di origine russa... sia della millenaria Russia
zarista, sia di quella rivoluzionaria; di meno, invece, con quelli della
russa sovietica. Mi capita, dicevo, di avere l'impressione di leggere
delle fiabe anziché racconti, romanzi, poemi e poemetti. E mi
capita, credo, non tanto perché le caratteristiche della
letteratura di questo popolo hanno intrinsecamente a che fare con il
genere letterario della fiaba (possono anche averlo) ma ciò che mi
fa pensare alla fiaba è piuttosto l'atteggiamento incantato, lo
stupore, che mi suscitano tali letture. Ovvio poi che alcuni
autori abbiano una spiccata componente fantastica, come anche che
intere tradizioni culturali di specifiche regioni della Russia o di
particolari gruppi etnici o religiosi possano aver favorito questa
componente.
C'è, poi, da dire che
essendo, quella russa, una cultura “diversa”, quel sentimento
dell'esotico tipico della cultura ottocentesca (le odalische di
Ingres, le donne di Algeri di Delacroix, il viaggio in
Egitto di Flaubert ecc...) io, vivendolo per latitudine
geografica, l'ho sostituito con un esotico altro da questo che
per certi versi già vivo o che comunque mi è quotidiano e di cui
non subisco il fascino. Fascino che, invece, ritrovo nelle foreste di
betulle delle sterminate terre russe, nelle estati in Crimea, nelle
coste del baltico.
Dunque questo sentimento
dell'esotico si accompagna a quello stupore che è caratteristico
dell'età infantile, ed insieme si sommano proprio nella letteratura russa, non in assoluto probabilmente, ma così come viene percepita dai popoli mediterranei.
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Chaim Soutine - Stada di Cagnes |
Credo pertanto che la
Russia abbia accumulato, storicamente parlando, un “ritardo”
rispetto al resto dell'occidente. Penso all'abolizione della servitù
della gleba (le famose anime
morte) ma anche a tante altre caratteristiche dalla vita
quotidiana russa, come la tardiva industrializzazione, il legame a
tradizioni antichissime; caratteristiche che rappresentano, per certi
versi, un'infanzia prolungata da parte del popolo e della cultura
russa e superate solo con la rivoluzione bolscevica, in quella che
potremmo definire un'adolescenza utopica, come ogni altra
adolescenza. Poi la maturità, la terribile età del compromesso,
della realtà senza maschere, della brutalità e della disillusione:
lo stalinismo. Però questo “ritardo”, sempre che ci sia veramente,
fu solamente storico mentre da un punto di vista letterario questo
“ritardo” non si avverte affatto. Credo che sia anche per via di
questa sfasatura tra una forma (la letteratura e l'arte in generale)
matura, consapevole, e una “materia” (il contesto storico e
quindi, marxianamente, l'uomo) ancora infante, ad aver creato quel
“fantastico” di tanta letteratura russa. Quel fantastico che poi
vediamo plasticamente raffigurato da Chagal o meglio ancora da
Soutine. Perché mentre Chagal dipinge una realtà già di per se
fantastica, Soutine dipinge la cruda realtà, anche la più
quotidiana, e nonostante ciò questa realtà quotidiana ci appare
nuova, perché è con gli occhi del bambino che la guarda.
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Chaim Soutine - Paesaggio di Cagnes |
Questi, in somma, i
sentimenti e le sensazioni con cui mi appresto di solito alla lettura
di uno scrittore o di una scrittrice russa. Una ulteriore conferma, se mai ce ne
fosse stato bisogno, l'ho avuta leggendo per la prima volta Marina
Cvetaeva. In particolare alcuni racconti che Editori riuniti ha
raccolto sotto il titolo “Il diavolo”. Mi è bastato leggere il
primo di questi racconti per innamorarmene. E non ci si può
innamorare di qualcuno senza avere la presunzione di averla/o
compresa/o. Forse è per questo che non solo non credo ma neppure amo
Dio? Ma questo è un altro discorso.
Leggendo i racconti di Marina Cvetaeva, infatti, non si può non pensare alle parole scritte da Baudelaire: “Il genio non è che l’infanzia ritrovata a volontà, l'infanzia dotata ora, perché riesca ad esprimersi, di organi virili e dello spirito analitico che le permette di ordinare la somma di materiali involontariamente accumulata”. Ebbene questi racconti ne sono la prova.
Marina Cvetaeva non solo racconta la sua infanzia, ma la racconta con l'innocenza, lo sguardo, lo stupore propri dell'infanzia, con quel wittgensteiniano gesto del mostrare (zeigen) più che del dire.
Così capita che anche le parole assumano significati imprevisti e persino le consuetudini logiche del mondo adulto vengono reinterpretate. La sintassi poi (ma qui ci sarebbe da capire quanto il traduttore è riuscito a rimanere fedele al testo originale che non conoscendo il russo ovviamente non ho letto), la sintassi, dicevo, riesce a trasmettere questo mondo di significati e significanti che si devono ancora fissare e, dovendola descrivere, userei l'aggettivo prismatica, proprio perché riesce a rappresentare questa sfaccettatura di significati.
Tutto ci appare nuovo e anche noi, come lei, poetessa-bambina che abita questi racconti, ci stupiamo persino delle cose più banali:
Marina Cvetaeva,Il diavolo, Roma, Editori riuniti, 1990
Leggendo i racconti di Marina Cvetaeva, infatti, non si può non pensare alle parole scritte da Baudelaire: “Il genio non è che l’infanzia ritrovata a volontà, l'infanzia dotata ora, perché riesca ad esprimersi, di organi virili e dello spirito analitico che le permette di ordinare la somma di materiali involontariamente accumulata”. Ebbene questi racconti ne sono la prova.
Marina Cvetaeva non solo racconta la sua infanzia, ma la racconta con l'innocenza, lo sguardo, lo stupore propri dell'infanzia, con quel wittgensteiniano gesto del mostrare (zeigen) più che del dire.
Così capita che anche le parole assumano significati imprevisti e persino le consuetudini logiche del mondo adulto vengono reinterpretate. La sintassi poi (ma qui ci sarebbe da capire quanto il traduttore è riuscito a rimanere fedele al testo originale che non conoscendo il russo ovviamente non ho letto), la sintassi, dicevo, riesce a trasmettere questo mondo di significati e significanti che si devono ancora fissare e, dovendola descrivere, userei l'aggettivo prismatica, proprio perché riesce a rappresentare questa sfaccettatura di significati.
Tutto ci appare nuovo e anche noi, come lei, poetessa-bambina che abita questi racconti, ci stupiamo persino delle cose più banali:
“ma più di tutto, tra tutto ciò che fu il mio primo rapporto con il pianoforte, amavo la chiave di violino. La parola – così prodigiosa e prolungata, che penetrava proprio per la sua incomprensibilità (perché di violino, quando era pianoforte?)...”Riesce impossibile, dunque, descrivere questi racconti se non ricorrendo io stesso ad un linguaggio poetico che non mi compete. Dunque leggeteli! Ecco l'unica cosa che posso dirvi, e ve lo dico, pur avendo il cuore colmo di gioia, con la stessa rassegnazione con cui un padre, non potendo spiegare la sua gioia a chi, non avendo figli, la trova esagerata, gli dice solamente: “Aspetta di averne (di figli) e poi fammi sapere”.
Marina Cvetaeva,Il diavolo, Roma, Editori riuniti, 1990
P.S. - L'aneddoto su Chaim Soutine mi sembra doveroso raccontarlo non solo perché l'ho chiamato in causa usando la sua arte per chiarire la mia teoria ma anche perché, come i racconti di Marina Cvetaeva, anche le sue tele sono un continuo ritrovare l'infanzia, un continuo posare sul mondo uno sguardo da bambino. L'aneddoto oltretutto riguarda proprio una delle sue tele più famose e fa riferimento all'infanzia di Soutine.
Chaim è nato a
Smilovitch, vicino a Minsk, da una famiglia di tradizione ebraica. Il
padre fa il sarto, ovviamente sono poverissimi. Il padre è un uomo
violento e il piccolo Chaim che già da bambino mostra la sua
propensione artistica viene spesso picchiato per questo motivo. Per
lui è già stata decisa una carriera da calzolaio. Oltretutto la
tradizione ebraica vieta la raffigurazione della figura umana,
precetto che Chaim disobbedisce. A sedicianni fa il ritratto proprio
del rabbino del villaggio. La punizione (in rispetto dei precetti
religiosi) fu immediata: Chaim venne chiuso nella cella frigorifera
del macellaio locale e venne picchiato selvaggiamente.
È con questo episodio
che ha inizio la vita artistica di Chaim che, dopo aver ricevuto dei
soldi pare proprio dal macellaio, parte per Minsk dove prende lezioni
di disegno compiendo il primo passo di quel percorso artistico e di vita che lo
porterà a Parigi.
Quest'episodio è diventato importante non solo perchè, ovviamente, segnò la vita personale dell'artista ma anche per l'influenza che ebbe sulla sua arte e su uno
dei suoi capolavori più famosi, Carcasse du boeuf.
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Chaim Soutine - Carcassa di bue |
Chi
gli fu accanto racconta che per tutto il 1925 ebbe come unico interesse
la realizzazione di questo dipinto. Altre volte era riuscito a
procurarsi le carcasse di tacchini, gallinacci, anatre, conigli,
polli, tutte diventate soggetti dei suoi dipinti. Ma il bue, la
carcassa di bue si porta dietro, artisticamente, un ingombrante predecessore, l'adorato
Rembrandt, e soprattutto il ricordo del macellaio di
Smilovitch. Quel macellaio nella cui cella era stato picchiato, e picchiato proprio per avere religiosamente seguito la propria vocazione, quello stesso macellaio che in una rara testimonianza Soutine stesso rievoca così:
“Una volta ho visto il macellaio del villaggio tagliare la testa a un uccello e svuotarlo del sangue. Volevo gridare, ma lui aveva l'aria così soddisfatta che quel grido mi è rimasto in gola […] Lo sento sempre lì, quel grido. Quando da bambino, facevo un ritratto, grossolano, del mio professore, cercavo di far uscire quel grido, ma inutilmente. Quando ho dipinto un bue squartato, è sempre quel grido che volevo liberare.” (Dan Franck, Montmartre & Montparnasse, Milano, Garzanti, 2009, pp. 491-498)
“Una volta ho visto il macellaio del villaggio tagliare la testa a un uccello e svuotarlo del sangue. Volevo gridare, ma lui aveva l'aria così soddisfatta che quel grido mi è rimasto in gola […] Lo sento sempre lì, quel grido. Quando da bambino, facevo un ritratto, grossolano, del mio professore, cercavo di far uscire quel grido, ma inutilmente. Quando ho dipinto un bue squartato, è sempre quel grido che volevo liberare.” (Dan Franck, Montmartre & Montparnasse, Milano, Garzanti, 2009, pp. 491-498)
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