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"Il futuro non è più quello di una volta"

Premetto che non è mia intenzione alimentare l'inutile polemica sulla paternità della citazione (che sia di Valéry, di Strand o Tresoldi, capite bene, è affare di poco conto). La riflessione che mi ha riportato alla mente questa frase (che io ho letto per la prima volta a Milano, stampata a caratteri cubitali sul muro di un palazzo) è nata dall'insistenza con cui nei media si parla dei giovani e della loro, evidente per chi commenta, incapacità di "crearsi un lavoro", di "creare un futuro migliore" ecc. 
Tanta creatività nella società borghese e capitalista non era mai stata richiesta a nessuno. Segno che qualcosa è cambiato, e non si tratta solo dell'evidente riconoscimento del "valore" (in questo caso economico) dei "prodotti creativi", che sono (capitalisticamente) riconosciuti alla stregua di qualsiasi altro prodotto. Quello che è cambiato credo sia la coscienza, quel breve ma necessario momento di astrazione con cui analizzare se stessi e il mondo e valutare (una sorta di buissness plan esistenziale) rischi e potenzialità. Da questo punto di vista, mi sembra evidente il differente risultato ottenuto dalle opposte forze generazionali in campo. La generazione dei padri e quella, sempre più orfana, dei figli.
I padri si sono resi conto, hanno finalmente preso coscienza, che le loro previsioni di sviluppo sono state errate, che non hanno valutato tutta una serie di elementi legati alle più volgare esigenze di quel mercato globale che si erano tanto preoccupati di creare per ampliare i loro profitti e che poi, come un boomerang, gli è ritornato incontro; ma non avevano preso in considerazione nemmeno altri elementi, meno volgari, come l'ecosostenibilità dei loro progetti o l'evidente impossibilità di applicare un modello di crescita infinito (il capitalistico) ad un sistema (l'ecosistema terrestre) finito. E, diciamolo pure, se ne sono belli e fregati (sia pure con le migliori intenzioni da parte loro) delle generazioni future. Ora, però, nonostante la coscienza acquisita, non sanno cosa fare e mettono sulle spalle dei figli questa loro impotenza e chiedono loro di inventarsi qualcosa, di creare, pur non modificando i loro modelli comportamentali.
Passiamo ai figli. I figli non credo che abbiamo, perlomeno la maggioranza, una coscienza e una capacità critica basata sugli stessi principi dei padri, tuttavia sono ugualmente riusciti, per istinto, a raggiungere una sorta di coscienza collettiva. Un istintivo intuitivo per il pericolo che li spinge sulla difensiva, quando si tratta del futuro.
"Il futuro non è più quello di una volta", dicevamo, e loro lo sanno. Infatti, anche quando non riescono a capirne il motivo, o ad analizzare la situazione criticamente, sanno (ne hanno coscienza) che in quel futuro nuovo (dissimile da quello che aveva la generazione dei padri) c'è qualcosa di pericoloso, da cui stare alla larga.
Lo sanno, ad esempio, anche le sopravvissute civiltà "altre" che in ogni angolo della terra si rifiutano, per istintivo fiuto del pericolo, di avere contatti con la cultura dominante. Poiché, è evidente che quando parliamo in termini generazionali ci riferiamo solo allo scontro generazionale interno alla cultura occidentale e capitalistica, che del resto è il modello culturale dominante.
In questi giorni, l'italietta post-fascista, post-democristiana e proprio per questo molto più fascista e democristiana di quanto non lo fosse stata nel secolo passato, rimane estasiata ad ogni parola pronunciata dal capo politico e spirituale della Città del Vaticano. Più semplicemente Papa Francesco o, come si dice di questi tempi, con annesso scintillio oculare, "il gesuita riformatore". 
Dal Brasile, il Brasile della crescita del Pil e del conseguenzale impoverimento di sempre più vasti strati della popolazione, già storicamente famosa per la sua povertà, Papa Francesco ha lanciato (scusatemi la banalità espressiva) ai giovani una serie di proclami ottimistici e accolti (almeno dai cattoli e dunque anche dalla maggioranza dei media e dei politici italiani) con strabordante entusiasmo. Uno di questi diceva:
"Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti, siete voi quelli che hanno il futuro, tramite voi entra il futuro nel mondo, non siate codardi. Non state alla finestra della vita, non rimanete alla finestra, entrate..."
Tuttavia mi sembra evidente che quell'atteggiamento (poiché è evidente che esiste nella generazione dei figli) di ritrosia verso le responsabilità della vita adulta non è solo lassismo, codardia o un'epidemia collettiva di sindrome di Peter Pan, quanto piuttosto l'ultimo estremo tentativo di una generazione (quella dei figli) di conquistare l'indipendenza da quella dei padri. Di emanciparsi. Poiché l'alternativa (onora il padre, ci hanno insegnato) è quella di accettare un Futuro (che non è più quello di una volta) e, questo non lo dice nessuno, impossibile da riformulare se non dopo un completo e apocalittico fallimento dell'attuale sistema vigente. L'alternativa, infatti, sarebbe quella occupare il posto dei padri, diventare protagonisti, si, ma di una tragedia già scritta.
Mi vengono in mente alcuni romanzi del tardo ottocento o del primo novecento, quelli in cui l'epopea borghese aveva superato la fase eroica e iniziava a mostrare le prime incrinature. Penso ai tanti personaggi da romanzo che, morti i padri, ricevevano speranzosi le carte testamentarie e anziché trovarvi conti milionari ci trovavano conti in rosso, cambiale e fornitori da pagare. Solo che ora i figli lo sanno, e da quei padri, con una insolenza priva di tradizione, si vogliono emancipare, per non ereditare quel futuro che gli hanno testamentato. 
In questo caso, però, per contingenze storiche, non possono rinunciare solamente a quel futuro che i padri gli hanno lasciato in eredità ma, nichilisticamente (un nichilismo più subito che voluto) si vedono scostretti a rinunciare all'idea stessa di un futuro, che proprio perché non può più essere inventato (se non in parte) ma subìto, non può più essere considerato tale.

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